“Luigi il crudele era caduto dal cielo, tutto d’un tratto egli era là… il girovago, l’imprevedibile che aveva per dimora le ferrovia e per atelier lo zaino… Luigi l’uccello, vagava sulla sua bicicletta per tutta la zona delle colline, era qui e là… scriveva con fatica, Luigi, lo spensierato, il suo sguardo indugiava penosamente sulla carta anche per un’ora… le partenze erano gioia vitale per il suo cuore di uccello migratore… Luigi montò sul suo velocipede, sventolando il cappello, era già lontano. Notte, stelle. Luigi era in Cina. Luigi era una leggenda.”
Chi conosce bene Grechi può pensare che queste parole siano dedicate a lui…Invece no, quando Hermann Hesse scrisse “L’ultima estate di Klingsor”, Luigi non era neanche nato, figuriamoci. Pure, come il suo omonimo, è divenuto egli stesso una specie di leggenda, visto che i media si sono occupati di lui in maniera obliqua e discontinua e semmai il suo nome circola di bocca in bocca in una setta di irriducibili appassionati della canzone d’autore.
Luigi Grechi nasce musicalmente alla fine degli anni sessanta al Folkstudio di Roma, il mitico locale di Trastevere che fu in quel periodo l’approdo di tutta una generazione musicale d’avanguardia (Ci capitarono, fra gli altri, Odetta e Bob Dylan). Del tutto disinteressato alle mode e inguaribilmente attratto dalla musica dal vivo più che dalle sale di registrazione dobbiamo attendere qualche anno per la pubblicazione del suo primo album “Accusato di libertà” (PDU 1975). E di libertà Grechi dimostrava veramente di intendersene parecchio: lo troviamo infatti in quegli anni a suonare in giro per festival alternativi e radio libere, locali e cantine: si dice, anche, a leggere i Tarocchi ai passanti e a viaggiare su giu per l’Italia, l’Irlanda, gli Stati Uniti. A Milano fa anche il bibliotecario, come già suo padre e suo nonno, ma questo non gli impedisce di continuare a suonare e ad incidere brani corrosivi e spiazzanti come “Elogio del tabacco” o “Il mio cappotto”, splendididi esempi di discografia non allineata che, seppur lontanissimi dalla hit parade cominciano a procurargli stima ed attenzione da parte di un pubblico di nicchia dal palato fine.
Verso la fine degli anni ottanta lo troviamo con qualche disco in più all’attivo e con l’attività di bibliotecario ormai alle spalle. E’ di questo periodo “Il bandito e il campione”, brano portato al successo dal fratello Francesco De Gregori (Grechi, per chi non lo sapesse, è un “nom de plume”), grazie al quale Luigi Grechi si aggiudica a Sanremo la Targa Tenco nel 1993 come miglior canzone dell’anno.
Sull’onda di questo successo si snodano “Girardengo e altre storie”, “Cosivalavita”, “Pastore di Nuvole” ed infine “Angeli e Fantasmi”. L’accusa di libertà continua a pendere sul suo capo. Partecipa a due tour italiani con i poeti della beat generation accompagnando con la sua chitarra Lawrence Ferlinghetti e Martin Matz, continua ad esibirsi su e giù per l’Italia fra festival, teatri di provincia e circoli culturali…Ha recentemente pubblicato una compilation delle sue canzoni, “Tutto quel che ho 2003-2013” , e la sua ultima impresa è stata la traduzione di “La ballata di Woody Guthrie”, un graphic novel di Nick Hayes uscito quest’anno e dedicato alla vita del grande folksinger.
Quando ha tempo vive in Umbria tra la pianura e le colline.
Lasciate che vi racconti della mia vita attraverso un pugno di canzoni, sembra voler dire Luigi Grechi, che da qualche anno si è riappropriato del suo vero cognome, De Gregori (Grechi era quello della madre), in scena al Nidaba Theatre di Milano qualche sera fa.
Da solo, con la sua chitarra acustica, trasforma il piccolo pub milanese nel Folkstudio, lo storico locale di Roma che negli anni sessanta voleva tanto assomigliare ad un pezzo del Greenwich Village di New York. Che poi non è neanche così banale, provare a raccontare di sé, con sincerità e passione come ha fatto questo cantautore, fratello del più celebre Francesco De Gregori, ma, per quelle strane e imperscrutabili vie del destino, immeritatamente meno celebre.
Non è scontato perché molti, di fatto, non lo fanno; lasciano che le canzoni siano talvolta la maschera da indossare sul palco, per camuffare la vita o, tutt’al più, nasconderla, proteggerla dalle troppe ferite e da ogni tentativo d’intrusione. E se è anche vero che le canzoni camminano da sole, capaci, come ogni opera d’arte, di suggerire al tuo cuore il percorso e le strade dove esso ha bisogno d’andare, è altrettanto bello quando ci è concesso, poter entrare anche nelle pieghe dell’esistenza di chi le ha create, carpire qualche segreto di come siano state costruite, toccare qualche nodo di quella rete di sensazioni e fatti di vita che hanno fatto sì che esse vedessero la luce. Luigi Grechi, nel suo breve concerto acustico – una carrellata dei suoi più grandi successi – non si è certo risparmiato in questo. Ogni canzone è stata preceduta dal racconto di quel pezzo di esperienza che l’aveva preceduta, dentro una modalità di affrontare la vita magari a muso duro, ma con un ineffabile desiderio di verità e di sincerità.
Si sa via, alla fine, con un unico rammarico. Quello di non aver avuto, per pudore, il coraggio di avvicinare Luigi per qualche istante, anche solo per un breve assaggio di conoscenza, lui che, prima dello show, si lascia accostare da chiunque con facilità, a due passi fuori del locale. Ma si torna a casa felici d’aver incontrato un uomo vero, che ha cantato e raccontato di sé. Delle proprie gioie e delle fatiche, di piccoli successi, ottenuti senza compromessi, e di storie di peccato e di desiderio di redenzione. E’ un abito fatto di sincerità che lui ha indossato e che, forse, inconsapevolmente, ha provato a togliersi di dosso, alla fine della serata, per passarlo a ciascuno dei presenti. Un abito da provare a rimettere di nuovo anche domattina in ufficio, a casa, oppure a scuola. Per riscoprire il nostro bisogno di bene e provare ad essere felici. Felici, come Luigi Grechi De Gregori sembra essere ormai per davvero. Questo “vecchio pastore di nuvole e minatore di desideri”. Il “marinaio di lungo corso che ha navigato sui sette dolori” e che questa sera ha fatto attraccare la sua barca al porto dei nostri cuori.
(Recensione di Paolo Vites su ”Il Sussidiario”)